Per anni abbiamo sentito parlare del “Web 2.0”, di “Tecnologie 2.0” e simili, senza sapere mai davvero di cosa si stesse parlando. Non ci hanno nemmeno dato il tempo di comprendere bene cosa fosse “Duepuntozero” e cosa no, ed ecco che i media cominciano a utilizzare l’espressione “Web 3.0”. Ci siamo persi un passaggio? Siamo destinati a rimanere dei trogloditi informatici mentre un’orda di nativi digitali prende il possesso della nostra società? O siamo vittima di una (l’ennesima) supercazzola degli addetti al marketing? Per capirlo, proviamo innanzitutto a ricostruire l’origine e il significato dell’espressione “2.0”.
Innanzitutto, non si tratta di un numero solo ma due, separati da un punto che non rappresenta i decimali (in Italia si usa la virgola per questo scopo, mentre negli USA il separatore dei decimali è proprio il punto). Essa è, invece, una notazione convenzionale utilizzata nella distribuzione di prodotti informatici (software), che è nata molti anni fa per indicare univocamente l’evoluzione e la compatibilità delle diverse versioni dello stesso programma. In pratica, un programma informatico viene distribuito in una certa versione, indicata da almeno due (ma anche tre o quattro) numeri (ad esempio, il mio browser è attualmente Google Chrome, versione 47.0.2526.111).
I primi due numeri sono i più importanti e si chiamano rispettivamente “major” e “minor”, gli altri due indicano generalmente cicli e fasi di produzione di quel programma, a seconda del metodo di sviluppo utilizzato (build, maintainance, revision, …). La convenzione prevede che quando si crea un nuovo software si parta dalla versione 0.1 e si proceda creando le versioni successive (0.2, 0.3, eccetera) finché il software non è pronto per la distribuzione ufficiale: quest’ultima dovrebbe sempre coincidere con la versione 1.0 (“uno punto zero”). Il ciclo di vita del programma, lungi dall’essere finito, prosegue poi con i rilasci successivi, che aggiungono funzionalità, correggono bug, sistemano problemi di sicurezza e si chiamano “versione 1.1”, “1.2”, “1.3”, e così via. A un certo punto, quando le modifiche trasformano il programma in qualcosa di significativamente diverso dal programma originale (interfaccia grafica innovativa, numero di funzioni considerevolmente aumentato, utilizzo di nuove tecnologie e formati) gli sviluppatori fanno il “salto” e distribuiscono la versione 2.0 (“due punto zero”).
Nel modo in cui lo utilizziamo, quindi, la locuzione “Due punto zero” significa “una evoluzione, in un campo specifico, abbastanza importante da far sì che quel campo non sia più lo stesso di prima”. L’espressione nacque intorno al 2004, quando Tim O’Reilly tenne una conferenza dal titolo “Il Web 2.0” per evidenziare che internet stava prendendo una piega diversa rispetto a quello che si era sviluppato negli anni Novanta, grazie all’introduzione di nuove tecnologie, nuovi strumenti e nuovi modi di usare la rete da parte degli utenti. Nonostante non esistesse (e non esista ancora) una definizione chiara di quali siano gli elementi che rendono il web “2.0”, i media ripresero estesamente la dicitura e ne assicurarono la diffusione e il successo, tanto che negli ultimi anni abbiamo assistito a un numero smisurato di campi in cui ogni novità veniva chiamata il 2.0 di quel campo: la politica 2.0, la scuola 2.0, i giornali 2.0, eccetera. Ciò che accomuna tutti questi campi (compreso il web) è il desiderio diffuso di una svolta innovativa, il bisogno di attrarre consensi o investimenti tramite tecniche di marketing e soprattutto la vaghezza nel descrivere cosa si intenda con “due punto zero”: solo così, infatti, si può evitare di entrare nei dettagli di ciò che si vuole migliorare (col rischio di escludere qualcosa che interessi ai nostri interlocutori), e si lascia aperta la possibilità di includere nella nuova versione tutto ciò che fa comodo (nel caso più estremo, nulla, se ad esempio si vuole vendere un prodotto già esistente come se fosse nuovo).
Negli ultimi tempi, poi, con l’uso dell’iperbole che tanto è caro al mondo della pubblicità, si sta iniziando a introdurre il concetto di Web (o altro) 3.0. Senza entrare nei dettagli di cosa ciò comporti (visto che non ho ancora chiaro cosa sia incluso e cosa no nel Web 2.0) mi limito a osservare che il messaggio che si vuole dare in questo caso è “le innovazioni già introdotte dal 2.0 e il termine stesso hanno stancato e iniziano a non vendere più, pertanto è pronta un’altra svolta che rivoluzionerà nuovamente il campo”. Gli americani, che sono notoriamente molto avanti rispetto a questi temi, parlano da anni della mania per “La Prossima Grande Invenzione” (in inglese “The Next Big Thing”). Sebbene condivida in pieno l’entusiasmo per l’innovazione e la tecnologia, personalmente preferisco dedicare le mie attenzioni allo stato dell’arte delle tecnologie che uso, sapendo bene che le grandi svolte non avvengono dall’oggi al domani ma si coltivano nel tempo e che le tecnologie che ci cambieranno la vita tra 10 anni sono già state inventate e hanno solo bisogno di perfezionamento, diffusione e investimenti (per raccogliere i quali l’espressione “Due Punto Zero” è, per fortuna, perfetta).