Guardate l’immagine qui accanto, e ditemi se la prima parola che vi viene in mente non è “selfie”. La differenza con quelli che fate quotidianamente con i vostri smartphone è che questa è stata realizzata a mano, utilizzando una sfera riflettente, nel 1935. L’autore, Maurits Cornelis Escher (si pronuncia “èscer”, so che ve lo stavate chiedendo), ha utilizzato questo espediente per ritrarre su una superficie a due dimensioni uno spazio tridimensionale: ma non gli bastava, come succedeva dall’invenzione della prospettiva in poi, rappresentare la profondità su un piano, lui voleva andare oltre e mostrare, oltre a quello che aveva davanti agli occhi, anche ciò che si trovava dietro di sè (compreso se stesso). La riflessione deformante della sfera diventa quindi un espediente per includere nel soggetto dell’opera tutto l’ambiente circostante: le quattro pareti, il soffito, il pavimento e tutto ciò che si trova nella stanza. Un po’ come si fa nella realtà virtuale (quella di Google Street View o delle foto a 360°, o Photosphere), ma senza l’aiuto della tecnologia.
In questi giorni, e fino al 19 luglio 2015, potete vedere le opere di Escher a Bologna, nelle sale di palazzo Albergati in via Saragozza, dove è stata allestita la mostra che ha già riscosso un grande successo a Reggio Emilia e a Roma negli scorsi mesi. All’artista olandese è dedicato un intero museo all’Aia, e gran parte della sua produzione è consultabile online sul sito della fondazione a lui intitolata. Il successo di Escher, che nacque nel 1898 a Leeuwarden (la stessa città di nascita di Mata Hari), è praticamente unanime tra i matematici e gli amanti della grafica e delle illusioni ottiche, visto che le sue opere rappresentano una vera e propria enciclopedia di teorie matematiche, fisiche, ottiche portate agli estremi dell’irreale e del subconscio, capaci di farci dubitare di ciò che vediamo e di farci vedere ciò che non esiste.
Sfogliando tra la sua vastissima opera, ci si imbatte in strisce di Moebius (anelli in cui la superficie interna ed esterna coincidono), riempimenti (o “piastrellature“) di superfici infinite con figure complementari o di superfici finite con figure che si riducono all’infinito (come i frattali), trasformazioni di forme e disegni senza soluzione di continuità (le “metamorfosi“), scale infinite, costruzioni impossibili e illusioni ottiche in cui l’alto si confonde con il basso, il vuoto con il pieno e il davanti con il dietro.
Un’ultima particolarità di questo artista era il suo amore per l’Italia: nello spirito dei “Grand tour”, Escher si spinse fino al profondo sud dell’Italia tra il 1922 e il 1935 (per poi lasciare il Paese, anche a causa del clima dittatoriale che si stava instaurando in quegli anni). Di questi viaggi rimangono alcune meravigliose stampe, che ritraggono i paesaggi unici e sorprendenti che lo colpivano: San Gimignano, Scanno, Castrovalva, Tropea, Atrani, Monreale, Roma. Ma uno dei paesi che lo colpì maggiormente fu Pentedattilo, proprio sulla punta meridionale della Calabria. Questo paese prende il nome dalla singolare forma della montagna accanto alla quale sorge, che presenta cinque sottili spuntoni che sembrano formare le dita di una mano (penta daktylos, infatti, significa “cinque dita” in greco). Gravemente danneggiato dal terremoto del 1783, il paese di Pentedattilo si spopolò gradualmente fino a diventare, già all’inizio dell’Ottocento, un vero e proprio “paese fantasma”, il che contribuiva a fornirgli quel fascino misterioso che ha colpito anche Escher.