Qualche giorno fa ho avuto il piacere di assistere a un interessante seminario dell’ing. Giuseppe Rossi (docente di reti telematiche presso l’Università di Pavia) dal titolo “Evoluzione della rete Internet: da ARPANET ai nuovi standard di comunicazione”. In particolare, pur partendo dalla storia di Internet e dalla sua evoluzione nei decenni, l’argomento principale del seminario riguardava il (lento) passaggio dalla versione 4 alla versione 6 dell’Internet Protocol (IP), che costituisce il fondamento di tutte le reti informatiche così come le conosciamo oggi. Lo so che si tratta di un tema molto tecnico e specifico, ma se vi è mai capitato di imbattervi in un titolo di giornale del tipo “Gli scienziati lanciano l’allarme: gli indirizzi stanno per finire, Internet vicina al collasso” questa è l’occasione giusta per sapere come stanno veramente le cose. Un bonus per gli ambientalisti (so che mi leggete, dopo il mio post sui “Limiti dello sviluppo”): troverete un numero inquietante di analogie tra questa vicenda e la reazione dell’umanità al problema del riscaldamento globale.
Iniziamo dal principio: il fatto che il vostro PC (o Mac, o smartphone, o tablet, o altro) riesca a comunicare è il frutto di anni e anni di ricerca, sviluppata a partire dagli anni ’60 negli ambienti accademici e militari statunitensi. Per far sì che macchine (anche di tipo, marca e modello diversi) potessero interagire era necessario definire un linguaggio comune (un “protocollo”, per l’appunto), e una parte fondamentale di questo linguaggio doveva riguardare l’indirizzamento: per “parlare” con un computer deve innanzitutto essere possibile identificarlo con certezza e poterlo trovare in una rete potenzialmente illimitata. Non si tratta di un problema banale, se pensate che, ad esempio, le Poste Irlandesi applicano ancora regole del tipo “se esistono più omonimi in una città, la lettera va a quello residente da più tempo”. I tecnici risolsero il problema inventando il cosiddetto “indirizzo IP“: una cosa del tipo “71.128.0.225”, di cui avete di certo sentito parlare (“è inutile che ti nascondi dietro un nickname, so il tuo IP”, “la polizia è risalita ai malviventi tramite il loro IP”, eccetera…).
Al momento della sua definizione (la versione 4 dello standard, il cosiddetto IPv4 – in uso ancora oggi – fu pubblicata nel 1981) il numero di indirizzi disponibili, oltre 4 miliardi, era ritenuto più che sufficiente alle esigenze di una rete mondiale di calcolatori (solo qualche anno prima Ken Olsen affermava: “Per quale motivo una persona dovrebbe tenersi un computer in casa?”). Con l’invenzione del World Wide Web e l’esplosione di Internet degli anni ’90, però, lo scenario cambiò improvvisamente: la domanda crescente di indirizzi (causata dall’aumento della popolazione che accede alla rete e al moltiplicarsi dei dispositivi dotati di connessione) rischiava di portare molto presto alla saturazione degli indirizzi IP disponibili. A un certo punto, sempre più vicino, non sarebbe stato più possibile connettere nuovi utenti a Internet! I tecnici corsero immediatamente al riparo, e in pochi anni riprogettarono il protocollo alla base di Internet: a dicembre 1998 venne pubblicata la definizione dell’IPv6. Se vi state chiedendo che fine abbia fatto la versione 5, sappiate che IPv5 era il nome che si era dato ad alcuni tentativi precedenti di evoluzione dell’IPv4: per evitare confusione, i ricercatori decisero quindi di saltare questa numerazione.
Oltre a risolvere ampiamente il problema dell’indirizzamento (sono disponibili circa 3,4×10^38 indirizzi, un numero impronunciabile scritto come 34 seguìto da 37 zeri, 340.000.000.000.000.000.000.000.000.000.000.000.000) IPv6 prevede già tutti i meccanismi per una transizione indolore dal vecchio al nuovo sistema (permettendo la coesistenza dei due protocolli fino alla dismissione del vecchio). Ma allora, dopo 16 anni dall’invenzione della soluzione, perché stiamo ancora qui a parlarne? Perché il vostro computer (o smartphone, o tablet) va ancora in Internet con un indirizzo IPv4? E sopratutto, cosa c’entra questo con il riscaldamento globale? A questo punto, avete in mano tutti gli elementi della similitudine: la crescita continua genera scarsità di risorse, fino a mettere in discussione l’esistenza stessa di un ecosistema; la comunità scientifica solleva il problema e lavora alla soluzione; infine, una volta che la soluzione c’è, i tempi per la sua adozione si dilatano all’infinito, perché magari si preferiscono soluzioni temporanee ma più familiari, perché l’adozione della soluzione non è sfruttabile dal punto di vista commerciale, perché “abbiamo sempre fatto così”, perché “lo farò quando lo faranno gli altri”, e così via… Quante volte avete sentito queste frasi? Quante volte siete stati voi stessi a pronunciarle? Perché aspettiamo sempre di essere sull’orlo del baratro prima di spostare il piede sul freno? A questo, la comunità scientifica non ha ancora dato risposta.